PRO PATRIA. Senza prigioni, senza processi.

Ascanio Celestini - Pro Patria

domenica 27 gennaio 2013 – ore 21

PRO PATRIA. Senza prigioni, senza processi.

di e con Ascanio Celestini

suono Andrea Pesce

produzione Fabbrica  – Teatro Stabile dell’Umbria

 Ingresso euro 23 – 20 – 17,50 – (prevendita dal 5 novembre )

“i morti e gli ergastolani hanno una cosa in comune,

non temono i processi.

i morti perché non possono finire in galera.

gli ergastolani perché dalla galera non escono più.”

 

“chi ruba una mela finisce in galera anche se molti pensano che rubare una mela è un reato da poco. e chi ruba due mele? chi ne ruba cento? quando il furto della mela diventa un reato? c’è un limite? c’entra con la qualità della mela? la legge è uguale per tutti e i giudici non si mettono a contare le mele. la statua della giustizia davanti al tribunale ha una bilancia in mano, ma entrambi i piatti sono vuoti. non è una bilancia per pesare la frutta.”

 

Sono le parole di un detenuto che sta scrivendo il discorso. Un discorso importante nel quale cerca di rimettere insieme i pezzi della propria storia, ma anche di una formazione politica avvenuta in cella attraverso i tre libri che l’istituzione carceraria gli permette di consultare. Chiede aiuto a Mazzini.

Un Mazzini silenzioso e sconfitto.

 

Dopo aver raccontato la fabbrica, la guerra, i manicomi (anche al cinema, col bellissimo esordio La pecora nera), Ascanio Celestini spazza via tutta la retorica che ha accompagnato le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità gettando un ponte ardito tra Risorgimento e carcere.

Su uno sfondo bianco di manifesti, lo troviamo seduto su uno sgabello rosso sopra una pedana verde prato (sintetico) di due metri per due, claustrofobico tricolore stretto quanto una cella di prigione. Perché qui a raccontare la Repubblica Romana del 1849 c’è un detenuto dei nostri giorni, in carcere da così tanto tempo (e destinato a rimanerci a scadenza infinita) da aver perso un poco la ragione e parlare con l’ombra immaginaria di Mazzini, che quella prima repubblica governò  “senza carceri e senza processi”, interlocutore scelto in vista della preparazione di un discorso al giudice che non terrà mai.

Celestini snocciola con quel suo flusso rapido e martellante di parole, accarezzato da intercalari che ritornano come mantra, storie lontane di papi tiranni in fuga e giovani eroi rivoluzionari morti ammazzati a nemmeno vent’anni dalle baionette francesi, chiamate da sua santità. Nomi da libro di storia, i fratelli Dandolo, Mameli, Pisacane, che da inerti si riempiono di vita, memoria e sangue nel racconto che l’autore-attore sa far guizzare di immagini e aneddoti, notazioni minute e schegge vivide di realtà. Così, battaglie ottocentesche, ma anche la vita in gattabuia che il protagonista rievoca, con tanto di dati e descrizione di orrori quotidiani, in un continuo passaggio tra storia e presente, si popolano di esseri quasi mitologici – il rivoluzionario nero col cane a tre zampe, il galeotto “negro-matto” e il secondino “merda” – da fantasia di epos popolare, in un miracolo di verità e umanità che gli riesce, al solito, benissimo. Affabulazione ipnotica che, per contenuti, si spinge qui sempre più all’estremo, verso posizioni che non fanno sconti. Epica di rivoluzionari sconfitti e di rivoluzioni fallite e tradite dalla ragion di Stato (fa rabbrividire l’elenco di patrioti riciclati a ministri, statisti, uomini di potere), il testo azzarda il parallelismo tra Risorgimento, lotta partigiana e lotta armata degli anni ’70 quando le carceri furono infiammate dalle rivolte, e invoca l’abolizione della galera, “istituzione macabra e criminale”.

Si può storcere il naso. Ma quando, usando la logica di Wittgenstein, afferma che “la galera è un fatto che accade nel mondo, quindi il mondo è una galera”, fa accapponare la pelle.

Simona Spaventa,  La Repubblica,  11/05/2012

 

Ascanio Celestini

Mi chiamo Ascanio Celestini, figlio di Gaetano Celestini e Comin Piera.

Mio padre rimette a posto i mobili, mobili vecchi o antichi, è nato al Quadraro e da ragazzino l’hanno portato a lavorare sotto padrone in bottega a San Lorenzo.

Mia madre è di Tor Pignattara, da giovane faceva la parrucchiera da uno che aveva tagliato i capelli al re d’Italia e a quel tempo ballava il liscio.

Quando s’è sposata con mio padre ha smesso di ballare.

Quando sono nato io ha smesso di fare la parrucchiera.

Mio nonno paterno faceva il carrettiere a Trastevere. Con l’incidente è rimasto grande invalido del lavoro,

è andato a lavorare al cinema Iris a Porta Pia. La mattina faceva le pulizie, pomeriggio e sera faceva la maschera, la notte faceva il guardiano.

Sua moglie si chiamava Agnese, è nata a Bedero. Io mi ricordo che si costruiva le scarpe coi guanti vecchi.

Mio nonno materno si chiamava Giovanni e faceva il boscaiolo con Primo Carnera.

Mia nonna materna è nata ad Anguillara Sabazia e si chiamava Marianna.

La sorella, Fenisia, levava le fatture e lei raccontava storie di